L’origine della raccolta.
Nel corso di tanti anni ho raccolto le canzoni contenute in questo libro dalla voce dei miei genitori. Tra un racconto e l’altro, di fatti veri o di fantasia, comparivano sempre le canzoni.
Dovevo annotarle in tutta fretta perché quando uno dei due incominciava a recitarne o cantarne una non potevano esserci pause: il flusso delle parole era sostenuto dalla metrica e dal ritmo così com'erano stati memorizzati tanti anni prima ed ogni interruzione avrebbe comportato la fine del ricordo e della magia.
A volte capitava di avere a disposizione un piccolo registratore a cassette. Sicché, nel tempo, ho accumulato tanti foglietti su cui le canzoni sono annotate e alcuni nastri sui cui sono fortunosamente registrate.
All’origine di questa pubblicazione, quindi, non vi è alcun intento scientifico, non avendone il sottoscritto alcuna competenza, ma solamente l’intenzione di fissare per iscritto il portato di una lunga tradizione orale che rischiava di interrompersi per sempre.
E naturalmente la passione per il dialetto e per le canzoni a cui si unisce l’ammirazione per coloro che ce li hanno lasciati: ossia per tutte le generazioni di crucolesi che ci hanno preceduto e che hanno concorso a creare il nostro amato idioma ed il repertorio che ho cercato di ricostruire.
Con l’augurio che qualcuno capace di fare musica si innamori di queste canzoni e consenta di riascoltarle.
Per ogni canzone è presentata, a fronte, la versione italiana assumendo tutti i rischi connessi e cioè con la consapevolezza che sempre tradurre è un po’ tradire. Ma forse era inevitabile per consentirne la comprensione, ahimè, anche alle ultime generazioni di crucolesi.
La musica a Crucoli ieri e oggi.
I miei genitori ormai vecchi, come tanti loro coetanei, ricordavano con estrema precisione canzoni imparate nella loro giovinezza e quindi molti decenni prima, negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Come capita anche a noi, essi hanno continuato tutta la vita a cantare le canzoni apprese quando erano ragazzi, considerandole le uniche in grado di ridare vigore al mare di sentimenti ed emozioni che aveva agitato il loro universo giovanile.
La grande differenza rispetto ad oggi è che quella generazione le sue canzoni le creava e le cantava da sé mentre noi siamo esclusivamente consumatori passivi, attraverso mezzi meccanici, di una musica che non abbiamo creato. In passato, malgrado la scarsità di istruzione e di mezzi, era stata formata anche una banda musicale il cui ultimo componente, peraltro, è mancato solo di recente. Ricordo ancora la tromba appesa nel suo negozio di barbiere. La cultura musicale, proprio attraverso i gruppi bandistici, era diffusa e sostenuta e attingeva risultati che nel tempo si sono perduti. Alla festa patronale tutti gli anni partecipava una banda prestigiosa che faceva conoscere ed apprezzare i brani celebri del repertorio classico e operistico.
Nel periodo tra le due guerre e poi nel secondo dopoguerra fino a tutti gli anni Cinquanta del secolo scorso, a Crucoli si cantava e si suonava tantissimo.
Si cantava, in primo luogo, durante le feste: Corpus Domini ('U Corpu 'e Cristu) - Pasqua (Pasca) – Festa di Maggio, festa patronale (‘A Festa 'e Maju). Tutte ricorrenze primaverili o estive e che perciò permettevano di stare all'aperto in compagnia: era usanza di predisporre un'altalena (armari na vocula) in ogni parte del paese (ara porta 'e Poliddru, aru muru da Civitata, Sutt’u Pontu ara ficarazza, 'nta Porteddra, 'nta Scaccera, ad ogne ruga...) e frotte di ragazze e giovanotti si scambiavano tramite le canzoni i loro messaggi d'amore.
Si cantava anche nei campi, specialmente a sera sulle aie quando tutti insieme ci si riposava al termine di una dura giornata di sudore destinata ad essere replicata l’indomani. E soprattutto si cantava la notte tra i rioni del paese (rughe).
Le serenate.
Ora le notti a Crucoli scorrono silenziose e monotone. Un tempo capitava che fossero allegre e vivaci perché risuonavano d’improvviso le voci e le chitarre dei giovanotti che cantavano le serenate alle loro belle. I giovani innamorati, in quella società chiusa e sorvegliata, non avevano molte occasioni per intrattenersi. Parlarsi in pubblico presupponeva che, quantomeno tra lui e lei, ci si fosse scambiata una promessa seria (data a fida) altrimenti una ragazza rischiava di compromettersi.
Per dirsi le cose che era bello o necessario dirsi soccorrevano le serenate che, proprio in virtù di quello che si voleva comunicare, si dividevano in due grandi generi: canzoni d'amore (canzuni 'e amuri) e canzoni di dileggio (canzuni 'e dispreggiu). Dalle viuzze (vineddre) e dai vicoletti (stritti) i canti, che confermavano l'amore felice e consolidato oppure biasimavano l'amore negato o contrastato, salivano fino alla casa dell'amata (e dei suoi genitori!) ma ovviamente anche a quelle di tutto il vicinato.
E questo merita una sottolineatura: in tal modo i sentimenti di amore, da privati e personali, diventavano pubblici e condivisi. Nel senso che oramai tutti sapevano di un legame amoroso e tutti dovevano tenerne conto. In effetti di molte canzoni si riportavano ancora dopo tantissimi anni l'autore e la destinataria.
Il linguaggio e i contenuti.
Una volta, quindi, il dialogo amoroso era affidato alle canzoni. E che canzoni!
I nostri avi ci hanno lasciato testi di grande espressività e di elevata raffinatezza formale. E solo chi abbia una visione angusta della cultura popolare può sorprendersi che un popolo di contadini e di piccoli artigiani, per lo più illetterati, abbia saputo esprimersi con versi sempre poetici e ispirati e spesso eleganti e ricercati. Anzi la mancanza di formazione letteraria è un pregio in quanto rende questi testi di un’immediatezza e di una spontaneità sorprendenti.
Il linguaggio e le immagini rimandano al mondo dei contadini di Crucoli della prima metà del 1900.
Compaiono, infatti, frutti della terra (ranatu, pumu gentilu, perzicu, portugallo, cirasi, nuci, castagni, olivi, fafi, rosi ovviamente) e animali (lupi, pecuri, cani, ciucci, meruli, quagghj) con cui essi avevano consuetudine quotidiana ed oggi largamente eclissate. Affiorano squarci di vita che ai più giovani devono apparire veramente remoti. In una canzone (‘U gaddruzzu ‘e Jennaru) a far da quinta al dialogo amoroso è il telaio, che un tempo era diffuso tra le mura domestiche. In un’altra (La vita de lu lupu) par di risentire la campana che scandiva per tutti la giornata: a Menzijurnu indicava la pausa pranzo e a Vemmaria dava il segnale di fine lavoro. Nella stessa canzone è abbozzata la vita dei pastori con i cani che abbaiano intorno alla capanna di paglia (‘u pagghjaru), all’epoca diffusa nelle campagne sia come luogo di riposo e di riparo dalle intemperie sia come deposito di attrezzi e sementi.
In Chjantai nu ciraseddru e ficia juru l’amato a cui il rivale sottrae la bella si paragona efficacemente all’ape che sugge i fiori ma poi rimane senza miele perché l’ape regina glielo sottrae:
Jè fozi l’apa chi cozi lu juru:
mò vena l’apunu e si mangiar’u melu.
Interamente costruita su una metafora agreste è Stitti sett’anni a chjantari na vigna mentre Giuvina beddra, cchi fortuna avisti è un compendio della vita che menava la moglie di un pastore.
Naturalistica è la rappresentazione persino dei sentimenti in Lùcia de l’occhj mej simu luntani.
Queste canzoni ci restituiscono, quindi, non solo le antiche espressioni d’amore ma anche le atmosfere, le usanze, le credenze e più in generale i tratti di quell’antica civiltà. E naturalmente il dialetto autentico, non ancora contaminato dalla modernità sopravvenuta (e in specie dalla televisione), con la sua freschezza e la sua capacità di aderire con efficacia alle più minuscole pieghe dei sentimenti umani.
Canzuni ‘e amuri.
L’amore è declinato in tutti i modi in cui lo è sempre e dovunque: i languori degli innamorati sono immutabili! E’ cantato il desiderio ardente, l’amore appagato e felice, l’amore infelice, l’amore irrealizzato e irrealizzabile, la passione, la gelosia e la delusione d’amore. Ricorre il binomio Amore e Morte. C’è il contrasto tra amore sacro e amore profano. E l’amore insoddisfatto che diviene ansia esistenziale.
Queste canzoni ricordano le poesie in volgare che segnano gli inizi della letteratura italiana. Salvo che i poeti di allora, per esempio quelli della Scuola Siciliana dell’epoca federiciana (1200), erano per lo più dotti e notabili di corte e scrivevano con una certa affettazione che tradisce la loro formazione ed il loro intento letterario. Qui invece si sente tutta la spontaneità e la sincerità popolare. Poi c’è la differenza di destinazione perché qui si tratta di testi destinati ad essere cantati anziché letti e declamati.
Sicuramente però viene in mente, già dall’incipit, Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo quando si legge O rosa russa de li virdi spini . Così come viene in mente la poetica (e la tempra) di Cecco Angiolieri alla lettura di canzoni come Longa la variva mia la voju fari, Jiv’ara timpa ppè mi tarrubbari o Domani partu, beddra mia, e vaj’aru focu.
L’amore per la donna ammirata.
Come esempio di omaggio ad una donna per cantarne la bellezza ed il portamento piace qui ricordare proprio O rosa russa de li virdi spini che dà il titolo al volume.
Qui la donna è, come in tanta parte della letteratura universale, paragonata alla rosa. La sua bellezza è così rifulgente che, all’incedere di lei, il sole stesso ne è sopravanzato e si nasconde. Quando lei cammina porta la furia della tramontana. La sua gioventù è eterna e, come il mare non perde mai l’onda, così lei conserva sempre la sua bellezza.
L’amore proibito.
Strata passeggera ohi mò ti lassu dimostra invece come siano stati abili i cantautori crucolesi ad esprimere i sentimenti avvolgendoli in un parlar coverto. In essa un uomo prende commiato dall’amante di un momento – strata passeggera - per fare ritorno alla propria donna – ‘a mia via. Ma l’addio è per lui doloroso e si trasforma in pianto. Un pianto che gli avvelena l’anima mentre si allontana perché, piuttosto che separarsi da quell’amante, preferirebbe avvelenarsi e morire. Davvero romantico. E la melodia che accompagnava questi versi li rendeva ancora più struggenti.
Amore sacro e amor profano.
In Beddra mia du Jovessantu si respira un’atmosfera di assoluta sensualità creata accostando, in modo peccaminoso, la passione per una donna alla Passione di Cristo. Durante i sacri riti del Giovedì Santo l’amante vede la sua donna che partecipa, tutta vestita di nero, alla celebrazione ma questa visione accende in lui la passione amorosa perché lei gli appare ancora più bella e seducente. Perciò si mette a lei di fianco per poter guardare i suoi occhi. E par di veder questi due amanti che, presi dal fuoco dei loro sguardi, ignorano gli altri e ignorano Dio.
L’artificio poetico richiama alla mente la scena del primo atto della Tosca in cui, durante l’esecuzione in chiesa del Te Deum, Scarpia pregusta di possedere la protagonista dell’opera: scena che si chiude con il celebre verso Tosca, mi fai dimenticare Iddio! Quando si ha presente che le canzoni erano davvero create per una donna in carne ed ossa, viene spontaneo chiedersi chi fosse questa Tosca crucolese.
L’amore non corrisposto.
Quando si ama ma non si viene riamati, l’alternativa è tra insistere - magari imprecando attraverso una canzone di dileggio - o rassegnarsi e cercare soddisfazione altrove. Quest’ultima è la via di fuga scelta dalla donna che intonò Mi passa chiru focu e chira vampa. Di questa canzone trovo particolarmente felice l’inizio (in tre sole parole – chira ‘strema gelusia - quanta passione è racchiusa!) e la chiusa (con l’immagine della lampada ad olio, allora di uso comune in tutte le case di Crucoli).
L’amore tradito per la ricchezza.
In Guarda quantu ‘nni fanu li dinari una donna stigmatizza l’amante che le ha preferito un’altra solo perché ricca. Anche questo è un motivo ricorrente ma qui c’è uno sviluppo inconsueto: la donna abbandonata, probabilmente dopo essersi concessa (dopo c’à datu ‘a fida e’r’a parola), è pronta ad uccidere chi l’ha tradita.
Le ultime due canzoni commentate consentono di rimarcare come anche le donne talvolta cantavano le serenate dimostrando, per l’epoca, una certa sfrontatezza (si veda anche Mamma ca passa lu dolce brunettu).
Canzuni ‘e dispreggiu.
Come si accennava in precedenza, l’altro genere di canzoni è quello di dileggio (Canzuni ‘e dispreggiu). In esse chi canta, generalmente, vuole vendicarsi per essere stato respinto e quindi ricopre la persona amata di contumelie (come in Nni su cuntentu e nni rengrazzu a Diu oppure in Guarda comu sun’àviti ssi finesti). Oppure sa che i genitori dell’amata sono contrari e pertanto questi diventano oggetto dei suoi strali. Anche questo genere è stato da sempre ampiamente praticato e sono documentati precedenti risalenti agli albori della letteratura italiana. Ad esempio si può rileggere La gobbetta di Guido Cavalcanti, autore reso celebre forse più dall’amicizia di Dante. Anche quest’ultimo d’altra parte, proprio il Sommo Poeta, si applicò alla poesia realistica, di contenuto comico e grottesco. Tra le antiche canzoni crucolesi, emblematica di questo genere è senza dubbio Affacci’ara finesta, coddrinngutta! che veniva cantata con una melodia particolarmente accattivante (a strofetta) accentuandone così l’effetto derisorio. Non doveva essere piacevole ricevere una serenata siffatta sotto il proprio balcone e, soprattutto, il pensiero che tutta Crucoli la sentisse.
Eterogenea rispetto ai generi descritti è Quannu passi de ‘ccà ferma na poca: il compare morto giovinetto si rivolge all’amico ancora vivo per suggerirgli di condurre una vita non dissoluta onde evitare la stessa fine precoce. Non è propriamente una canzone d’amore ma è così bella che non poteva essere tralasciata.
La chitarra battente per l’accompagnamento.
L’accompagnamento musicale era assicurato dalla chitarra. Quella classica e comunemente in uso ai nostri giorni (catarra francesa) e, soprattutto, la chitarra battente (catarra battenta), ora desueta ma tipica della tradizione del meridione d’Italia dove è attestata a partire dal 1300.
Ha la cassa bombata e monta quattro corde più, a volte, una quinta di bordone. Le corde anticamente venivano spesso raddoppiate. Il ponticello, molto basso e mobile, viene mantenuto in posizione dalla pressione delle corde. Il foro di risonanza è coperto da una rosetta decorativa colorata e traforata.
Non è suonata con il plettro ma con un determinato movimento della mano che genera un suono inconfondibile e diametralmente opposto al suono delle normali chitarre: una sonorità “battente”.
Lo strumento ideale per la tarantella, la pizzica, gli stornelli e, specialmente, per le serenate.
Le cantate.
Come ogni altro paese nei dintorni, Crucoli aveva una propria cantata con una melodia ed un accompagnamento tipici: la cantata alla crucolese (ara crucuddrisa) era quella più diffusa insieme a quella ‘ppè derittu e alla cantata ara francesa. Per le canzoni di contenuto comico si cantava a strofetta mentre per quelle più dolenti si cantava a lamentu.
Dai forestieri si apprendevano le rispettive cantate. Così, ad esempio, si cantava anche al modo di Cirò (ara cirotana) e al modo di Longobucco (ara lonnivucchisa).
Le serenate non erano un fatto individuale. Occorreva una voce da tenore come principale e poi altre due voci, una di registro più basso e l’altra di registro più alto, a fare il controcanto. Così il canto iniziava monodico per introdurre la frase (stanza) e poi assumeva uno sviluppo polifonico nel ripeterla (votari a stanza).
Per una migliore comprensione le prime canzoni nel volume sono trascritte integralmente riportando in corsivo, dopo ciascuna strofa, la parte che veniva ripetuta con tonalità differenti dalle altre due voci.
Insieme ai cantori, naturalmente, doveva partecipare qualcuno capace di suonare la chitarra.
Per fare la serenata alla propria donna, tuttavia, non era obbligatorio saper cantare: in mancanza, infatti, soccorrevano gli amici.
Tutto il gruppo si presentava nel posto convenuto e chiedeva il permesso di cantare con una canzone con la quale anche io mi rivolgo ai lettori:
A vuj signori, a vuj signori
cercu licenza sì
licenza cercu si si po’ cantari.
Franco Artese
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